Francesca Cavallini, psicologa, dottore di ricerca, fondatrice di Tice e mamma lesbica di due bambine, racconta da un punto di vista psicologico e scientifico l’omogenitorialità, aprendosi alla propria esperienza in modo consapevole e arricchente.
Se hai delle domande puoi scrivere a francesca.cavallini@centrotice.it
Devo dirgli del donatore o della donatrice? Cosa succede se non glielo dico? A che età devo dirglielo? Con che parole posso parlargliene? Ma cercherà il donatore o la donatrice? Cosa proverò se non mi riterrà la sua vera madre/padre? E se poi dovesse cercare il donatore e la donatrice? Crescerà bene? Influenzerà il suo sviluppo?
Il punto di vista della psicologia
Per rispondere a queste domande possiamo usare diversi livelli di analisi.
Il primo, quello scientifico, mi piace condividerlo proprio in virtù della mia formazione da psicologa clinica dello sviluppo.
In generale, la letteratura scientifica in ambito psicologico, risponde in modo piuttosto unanime: parlare ai bambini di questioni significative che riguardano la vita famigliare in modo sincero, adatto all’età e al livello di comprensione è correlato a un migliore clima relazionale e, di conseguenza, a un ambiente adatto allo sviluppo e alla crescita.
La scienza è scienza, ma quando si tratta di pensieri e emozioni non sempre la ascoltiamo.
Ci sono voluti millenni per convincerci che non era la magia a curare, ma la medicina, e ce ne vorranno altrettanti per credere che le verità psicologiche sono altrettanto scientifiche.
Dunque la ricerca scientifica ci da una linea guida generale di comportamento (ovvero parlarne), ma nonostante questo, e nonostante i consigli di ginecologi e psicologi, nell’intimo coltiviamo dubbi, proviamo ansia o preoccupazione quando pensiamo a questo tema.
Anche a me è capitato cosi.
Le mie domande e una risposta
Da vicino, grazie ai miei studi, potevo fruire delle conoscenze scientifiche (all’epoca ero assegnata di ricerca in Psicologia presso Università degli Studi di Parma), ma nonostante questo continuo intrufolarsi di conferme sperimentali, continuavo a covare dubbi, pensare e provare a rispondere a tre domande fondamentali:
1) come dirglielo?
2) quando dirglielo?
3) cosa dire?
Con il pancione che cresceva, passavo ore a pensare strategie di comunicazione.
Come avrei parlato della fecondazione eterologa a mia figlia?
Tanto per cominciare, in piena coerenza con il proverbio “parla bene, ma razzola male”, avevo raccontato una storia incredibile, e poco realistica, di uno sconosciuto professore americano con cui avevo avuto un’altrettanta improbabile avventura.
Nessuno ci ha mai creduto, quindi il mistero sul concepimento non ho nemmeno avuto il bisogno di svelarlo: la bugia ha avuto le gambe drammaticamente corte!
Ma torniamo al vero rapporto che mi interessava e giudizio che mi preoccupava. Quello di mia figlia.
Cosa, quando, come glielo avrei detto…e cosa avrebbe pensato lei di me?
Mi ha illuminata una frase della prof.ssa Laura Fruggeri, ordinario di Psicologia Sociale.
Era il 2010 e l’ho incrociata, a Parma in Università, mentre camminavo nel corridoio che dal mio ufficio portava alla stanza delle macchinette. Un corridoio illuminato con le pareti a vetro da cui si potevano scorgere piante di banano verdi con grandi foglie lucide e lisce.
Con la mia consueta irriverenza le ho chiesto:
“Prof.ssa, come, quando e cosa devo dire alla bambina? E se poi sbaglio modo? Se poi soffre?”
Una parola di risposta.
“Adesso”
Adesso
E così, proprio la stessa sera, tornando in auto da Parma sulla A1, accompagnata dal mio inseparabile stile di comunicazione, ho iniziato a raccontare a quell’ammasso di cellule che ora si chiama Bice, ancora comodamente adagiata nel mio ventre, la storia del mio viaggio.
Invece voi, quando pensate di parlare della fecondazione eterologa ai vostri figli?
Francesca Cavallini
Psicologa, Fondatrice di Tice, Docente presso l’Università degli Studi di Parma
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